In riferimento al post di
"Ripartire dalla Cultura" propongo una sorta di dissertazione su due punti che ritengo fondamentali tra quelli dell'appello presentato.
Senza doverli rileggere, li ho trascritti qui, in corsivo, per usarli come una sorta di spunto di riflessione.
L’Italia
ha bisogno di cittadini più istruiti e competenti.
Con l’incipit mi sento immediatamente discorde.
L’Italia non ha bisogno di cittadini più
istruiti e competenti, ha bisogno di imparare a valorizzare quelli che già
esistono, e che negli anni ha contribuito a formare.
Questo
obiettivo può essere raggiunto soltanto attribuendo allo studio, all’istruzione
e alla cultura un rinnovato prestigio sociale, derivante dall’effettiva
corrispondenza fra livello di istruzione raggiunto e riconoscimento di status
sociale e professionale
Lo Stato stesso ha spinto le nuove leve di
lavoratori a specializzarsi, specializzarsi, specializzarsi il più possibile, formando appositi
corsi di studi (anatomia della farfalla notturna, logistica del pacchetto
natalizio, corsi per future veline… ah, pardon, l’ultimo era reale) con
relativi master, master dei master e via dicendo, dimenticandosi poi che queste
nuove “figure professionali non professionalizzate” avrebbero dovuto trovare
una collocazione nel mondo del lavoro, e quindi anche nella società.
L’istruzione, per chi vuole perseguirla, ha
sempre un prestigio, è un valore aggiunto, soprattutto personale, oltre che sociale.
La
tensione verso un alto livello culturale deve diventare l’obiettivo in cui ogni
italiano si riconosce, perché a elevate competenze corrisponde una maggiore
probabilità di realizzazione personale.
Tanti italiani si riconoscono in questo
obiettivo, forse troppi.
Tra questi ci sono coloro che puntano ad un
pezzo di carta per avere un comodo posto intoccabile dietro a una scrivania,
così come coloro che vogliono fare il lavoro che sognavano fin da bambini e che
affidano alle sudate carte la loro possibilità di riuscita. In entrambi i casi
ci si affida, per il proprio traguardo, ad un dato apparentemente certo: ad
elevate competenze non corrisponde la maggiore probabilità di realizzazione
personale.
Anzi: le elevate competenze sono quelle che ti chiudono le porte nel
mondo del lavoro, perché fanno aumentare il costo del tuo compenso.
Serve
un’inversione di tendenza, perché il nostro paese spende per l’istruzione
pubblica e privata una percentuale del PIL sensibilmente inferiore rispetto
agli altri paesi OCSE. La percentuale di diplomati e laureati italiani è
inferiore a quella di tutti i paesi europei e le competenze linguistiche, matematiche
e di lettura degli studenti italiani, rilevate periodicamente attraverso
indagini internazionali, non sono all’altezza di quelle dei coetanei stranieri.
Il valore della formazione permanente, utile a rinnovare le competenze lungo
tutto l’arco dell’esistenza, non è oggetto di politiche pubbliche. E’
indispensabile che l’Italia impari a riconoscere e premiare il merito,
coniugandolo all’effettiva equità nelle condizioni di accesso all’istruzione e
alla cultura.
Non ho capacità né conoscenze per ribattere o
confermare quanto illustrato. Non mi soffermo quindi sui dati forniti, ma solo
sulle ultime righe, che si riassumono in una sola parola, che suona forte e chiara
nei desideri di molti cittadini, giovani e meno giovani: MERITOCRAZIA. Come
garantirla?
Per trovare risposta ci troviamo invischiati in
un meccanismo circolare: il favoritismo degli amici degli amici, la strada mai
ostacolata delle scorciatoie, la furbizia considerata dote più importante
dell’intelligenza, andrebbero forse a sparire con l’investimento in Cultura.
Quella che serve per aprire la mente, non solo
per avere un attestato.
Meritocrazia per avere Cultura e Cultura per
avere la meritocrazia.
Poche ore di “educazione civica” alle scuole
medie evidentemente non sono sufficienti al fabbisogno nazionale.
L’attestato di etica, purtroppo, nessuno lo
rilascia, eppure dovrebbe essere importante quanto una fedina penale pulita.
La
disoccupazione giovanile colpisce con particolare virulenza coloro che hanno
scelto il settore culturale come campo d’attività professionale. La riduzione
delle risorse pubbliche e private e il blocco delle assunzioni hanno
drasticamente ridotto la possibilità di uno sbocco lavorativo in questo ambito,
benché ancora in anni recenti si siano moltiplicati in modo incontrollato corsi
di laurea, scuole di specializzazione e dottorati; il risultato è che si
continuano a spendere cifre esorbitanti per formare giovani professionisti dei
beni culturali, salvo condannarli a un eterno stato di precarietà e di continuo
turn-over, con inevitabile degrado della qualità dei servizi resi ai cittadini.
Occorre che al rinnovato impegno dei professionisti della cultura corrisponda
un impegno della politica per la difesa e la valorizzazione del capitale umano,
per il ricambio generazionale e il rinnovamento dei ruoli direttivi,
scientifici e tecnici. Senza personale altamente qualificato e adeguatamente
riconosciuto le istituzioni e le aziende culturali muoiono.
Sono concorde su ogni singola riga.
Chi legifera non sa esattamente con quale
materia interagisce, motivo principale per il quale la grande offerta di studi
più o meno specialistici non trova poi l’assorbimento nel mondo del lavoro di
coloro che l’accolgono.
In particolare nel settore dei Beni Culturali.
Spesso chi entra in questo mondo lo fa per
amore della bellezza, dell’estro creativo, dello studio del passato. Spera di
andare a lavorare presso musei (in effetti chiedono laureati in Storia
dell’Arte per lavorare come commessi nei Book Shop), di maneggiare antichi tomi
nelle biblioteche, di occupare una cattedra dalla quale insegnare ad un’altra
generazione il valore di un patrimonio storico.
Nel campo del restauro lo si fa quasi per
Missione, oltre che per passione.
Non conosco nessuno che sia stato chiamato a
lavorare o a vedere un lavoro che abbia risposto “no domani non posso”, o che
non abbia piegato la testa di fronte ad un contratto poco conveniente o ad un
inquadramento sbagliato, quando la ditta dice “perfavore, lo sai che non ci sono
soldi”(in caso di sfruttamento, comunque diffuso, il discorso è differente). C'è chi accetta di aprire la partita iva "fasulla", perchè qualcuno lo fa lavorare e non lo può assumere; quella "vera" spesso non serve, perchè arcani motivi burocratici rendono impossibile a taluni lavorare su beni pubblici con un'azienda propria, nonostante accertate competenze.
Conosco pochi che non si siano pagati di tasca
loro corsi di aggiornamento che l’azienda non può permettersi di pagare, anche
se il capitale professionale va ad aumentarne il valore.
Sorvoliamo sul fatto che la maggior parte sono
donne, perché solo per questo ci vorrebbe un capitolo a parte.
Dovreste vederle, le anti veline, arrampicarsi
sui ponteggi e portare pesi che un uomo impiegato di banca non riuscirebbe a
sostenere, se non gonfiandosi in un’asettica palestra.
Il co.co.pro. e il contratto a tempo determinato
sono usuali, in fondo se l’afflusso di lavoro non è costante cosa si può
pretendere?
La difesa di questo capitale umano non solo non
esiste, ma arriva a prendere le sembianze di un’offesa.
Non si può qui entrare nel merito
dell’umiliazione che rappresenta una legge sospesa nel vuoto per almeno un
decennio, lo spauracchio di tutti gli operatori e professionisti del settore
(l’articolo 182 del Codice dei Beni culturali). Si sappia solo che ha bloccato
la crescita professionale di molti neo-formati, che ha favorito non
professionisti, che ha equiparato persone appena uscite dall’università, senza
nemmeno stage alle spalle, a tecnici che da anni maneggiavano bisturi,
pennelli, libri di chimica ed iconografia.
Ormai è una categoria che ride quando, rispondendo
alla domanda “che lavoro fai”, di rimando si sente dire “anche un mio zio
ridipingeva le seggiole in cantina, in fondo abbiamo tutti un qualcuno che
ristruttura in famiglia, e poi toglie le tarme dal legno”, oppure “ho visto che
restauravano quella cupola di quell’artista famoso… avete fatto bene a
rimetterci i colori, ora sembra nuovo, che pazienza che avete!!”).
Ride meno quando la categoria dei restauratori viene assimilata o confusa a quella degli edili, soprattutto a livello legislativo, nonostante l'immensa differenza di competenze.
Al contrario di come l’opinione pubblica
considera i restauratori (alchimisti o falegnami, imbianchini o amanuensi rasentanti l’autismo, a seconda), questi sono figure
formate a livello umanistico, scientifico e manuale: operai con un quid in più
(anche due o tre).
In realtà è l’educazione al gusto e al bello
che manca.
Se esistesse i restauratori sarebbero
considerati alla stregua degli idraulici, perché come loro sono indispensabili.
Indispensabili al mantenimento della memoria storica del Paese.
Per ogni David di Donatello restaurato,
esistono migliaia di opere che rischiano di essere perdute.
Un esempio pratico: per restaurare all’interno
del Bargello la celeberrima scultura, sono stati stanziati 200mila euro.
E’ occorso un anno per terminare l’operazione.
Operazione di sola pulitura.
Nella realtà quello che accade è molto diverso.
Con la stessa cifra, ammesso e non concesso che
le gare d’appalto vengano vinte non facendo massimo ribasso (che bello sarebbe) si sarebbero potute restaurare (facendo una media sommaria) circa una ventina di opere tra altari, tele
grandi formato, sculture ridipinte.
E guai a impiegare un anno per un lavoro.
Non si è mai visto.
I soldi sono pochi. Un tecnico con esperienza
si può trovare rimpiazzato da uno spaesato stagista, che non risucchia
importante liquidità all’azienda. Ma la qualità ?
Alcune soprintendenze effettuano il sopralluogo
di controllo con lo storico dell’arte che si accompagna al restauratore della
soprintendenza stessa.
Giustamente pretendono un lavoro fatto con
tutti i crismi, a prescindere dallo stanziamento (e son dolori!).
Altre no, l’importante è che costi poco: arrivano a permettere che il restauro, la manutenzione, possano essere fatti da artigiani anche senza i
titoli necessari, o gli anni di esperienza. Contro ogni legge e buon senso esistenti.
Le soprintendenze possono valere meno di un
committente.
Anche in questo l’Italia è spezzata. Le regole
non sono uguali per tutto il territorio.
Eppure stiamo parlando di dipendenti pubblici che
lavorano per un organo ministeriale.
Peccato che siano circa 20 anni che concorsi
non ne vengono fatti, che il personale non cambia ed è relativamente poco,
portando così poca innovazione e poca presenza sul territorio.
Eppure dovrebbero essere come “angeli custodi”,
e saper valutare il valore di un restauratore, lavorare a braccetto con lui.
Andare all’estero? No, grazie.
Eppure, oltre il confine, i restauratori italiani sono considerati un'eccellenza.
Un altro
mestiere forse avrebbe senso altrove.
Ma non questo, nel Paese col più alto numero
di opere d’arte al mondo, nel Paese in cui il restauro affonda le radici. Un controsenso e un'offesa.
Salviamolo, il lavoro di chi vuole salvare la
nostra Bellezza!